“La vegetariana” di Han Kang è un racconto di liberazione dall’umano. La quotidianità, la parola, il consumare un pasto, persino la pesantezza del corpo della protagonista, Yeong-hye, le sono superflui nel suo abbandono all’inconscio. Alla mente che si intestardisce nel voler tramutare in albero, in uno schizofrenico fondersi con la natura e non farsi mai più portatrice di dolore.
Di Yeong-hye sappiamo che è una donna ordinaria, di poche parole, così banale che durante il libro viene solo raccontata attraverso le voci degli altri: dal marito, al cognato, alla sorella. Come se già dalle prime pagine non possedesse un corpo. La sua unica voce sono stralci di sogni e di memorie di bambina che non hanno la forza di imporsi sul suo essere “una moglie come tante altre”. Un’immagine erotica tra gli schizzi di un artista dozzinale, una sorella minore di cui farsi carico, fino a trasformarsi in un involucro di pelle raggrinzito, svuotato di umanità. Yeong-hye lotta con queste descrizioni di sé con un feroce rifiuto della carne, del sesso, della parola, all’inizio, e infine della vita stessa, dell’uomo come organismo terrestre, animale.

Viene difficile pensare che Han Kang in questo libro descriva la stessa natura che oggi i giovani difendono nelle piazze in una strenua lotta all’inquinamento. L’ambiente, nella narrazione della società odierna, non si separa più da termini come “green”, “cruelty free”, “eco sostenibile” o “vegano”. Tra le pagine de “La vegetariana”, non c’è traccia però di una natura da proteggere e da cui attingere cautamente. Per la scrittrice sudcoreana, la natura è un incubo che sembra voler inglobare ogni cosa, un “mare crudele” con verdi foglie affilate che si agita sul ciglio della strada e diviene portatore di immagini angoscianti. “Un animale imponente, feroce e selvaggio” che vuole riconquistare ciò che sembra aver perso: il corpo di Yeong-hye.
La protagonista con la scelta di diventare vegetariana cerca un perdono da monaco buddista, ma ciò non è abbastanza per salvarla da sé stessa. Farsi dipingere fiori sulle natiche nude dal cognato, farsi entrare dentro i petali rossi di vernice attraverso il rapporto sessuale con l’uomo, non è abbastanza per placare i sogni che le rendono impossibile dormire. Nemmeno stare al sole, con il petto nudo, nell’apparente attesa di effettuare la fotosintesi, si traduce in una catarsi purificatrice del suo animo. Gli animali di cui si è cibata le rimangono bloccati in gola.

«Ho fatto un sogno», dice Yeong-hye. L’incubo dove persa in una foresta buia si imbatte in quarti di carne ancora sanguinanti che le riempono di polpa e sangue la bocca e le bagnano i vestiti. Si staglia, rosso su verde, come un atto di violenza indicibile e ripugnante sullo sfondo di una natura priva di ogni calore. «Ho fatto un sogno», dice Yeong-hye e, dal suo, sembrano dirompere gli altri. Chi la circonda, come influenzato, sogna di omicidi, di sangue, di interiora e di alberi e acqua.
Per primo il marito che, accanto al suo letto in ospedale, sogna di uccidere qualcuno ed estrarne l’intestino. Poi il cognato che la vede nuda, le gambe coperte di linfa e la pelle verde. Ancora, la sorella che, nel sonno, vede Yeong-hye ritta come un albero nella foresta bagnata di pioggia. Persino il figlio della sorella, un bimbo di sei anni, sembra subire l’unica vendetta della protagonista su chi non l’ha amata, protetta e rispettata. Un altro incubo dove la mamma si trasforma in un uccello bianco in volo, una creatura che, con slancio, vuole fondersi con l’aria. Proprio come Yeong-hye che si sporge indifferente dal balcone del suo appartamento.
Anche per raggiungere la clinica psichiatrica dove la protagonista viene portata nella terza parte del libro, la sorella, In-hye, deve attraversare una foresta. Le due donne sono gemelle nel loro divenire oggetto nelle mani del padre violento e dei mariti, uomini ignoranti che le pensano solo come comodità annesse alle loro case. Comodità da cui aspettarsi un piatto di zuppa (rigorosamente con carne) e su cui sfogare i propri istinti sessuali. Non esiste richiesta di consenso, amore o delicatezza nei volti sconosciuti di chi hanno sposato, c’è solo una bestialità latente di cui aver paura fino a piangere tra le lenzuola fredde.
«Perché, è così terribile morire?» chiede Yeong-hye. In-hye non sa rispondere. Anche lei fa dei sogni, anche lei è triste e ha dovuto subire un’esistenza che sembra non sua. Al contrario della sorella, non riesce però a tagliare il filo che la lega alla quotidianità. Il figlio, il suo negozio e prendersi cura degli altri sono le ragioni per cui continua a vivere, cercando di non far trapelare il suo dolore. Un dolore profondo che l’ha portata in passato ad affrontare un’altra foresta bagnata di rugiada. Con una corda in mano in cerca di un albero che la potesse accogliere per sempre.
Tuttavia, sul finale di “La vegetariana” Han Kang ci lascia incerti su cosa sia meglio: continuare a vivere un’esistenza che non sembra la nostra o rompere ogni limite che ci è stato imposto, da una società patriarcale e incurante e dalla nostra umanità intrinseca, rinunciando alla vita stessa? In-hye, seduta sull’ambulanza che trasporta la sorella all’ospedale, guarda gli alberi al bordo della strada in cerca di una risposta. Risposta che, l’autrice, lascia decidere a noi.
Jordie Confortini